18) L’oro

L'oro di Otre ESCAPE='HTML'

Il pulpare d’un avvoltoio sopra le loro teste coprì ogni altro rumore della foresta mentre si dirigevano verso la collina.

Trascus guardò in alto e rabbrividì senza conoscere esattamente il motivo dell’improvvisa sensazione che gli stava gelando il sangue.

«La senti anche tu?» chiese Gelkares dando forma ai suoi pensieri.

«Voi due vi conviene tacere o vi cucio la bocca!» ordinò il capitano azzittendoli perentoriamente.

Anche Phale stava avvertendo la stessa sensazione di freddo glaciale e la riconobbe subito: si trattava di arte oscura.

Rabbrividì, ma pensando agli amici prigionieri si costrinse a mettere da parte la paura.

Il panico era come una calamita per la magia nera: lo assorbiva, nutrendosi ed intensificando il proprio potere grazie all’energia riflessa.

I meccanismi che la rendevano possibile venivano insegnati ai Bianchi fin da quando erano bambini, insieme alla tecnica utile per schermarsi da essa.

S’affidò alle conoscenze apprese al Tempio e con un atto di volontà bandì dal suo corpo ogni traccia di timore.

Sentì in quel momento una forza potente attraversarle il corpo, come se fosse stata avviluppata da un velo protettivo e pensò fosse l’aiuto del suo Fetch.

Era importante non lasciare sedimenti di paura affinché la magia nera, che come un segugio prendeva forma annusandola, non la percepisse.

Trascus e Gelkares invece non riuscirono a schermarsi ed il freddo glaciale dell’arte oscura pervase i loro corpi.

Mhanna era venuta a conoscenza del messaggio del capitano ed aveva ricevuto le coordinate in cui avrebbe potuto individuare la figlia dei Sommi; sapeva inoltre che era accompagnata da due amici.

Gelkares la conosceva mentre di Trascus non aveva ricordo: uno schiavo non era un oggetto degno d’attenzione.

Quando però violò il suo corpo viaggiando in astrale, rammentò, anche se con scarsa chiarezza, la sua identità.

Era ancora troppo poco per avere un concreto punto d’aggancio e superare lo spazio tempo, ma costituiva un buon inizio.

Entrare in Gelkares fu più complicato, era una Bianca e si stava schermando come poteva, ma la resistenza durò molto poco sostituita da una paura cieca che la rese completamente disponibile alla sonda astrale.

“Ecco chi sei, l’Intoccabile che si occupava di Mahina, certo che mi ricordo di te!” pensò Mhanna.

Non aveva notizie precise su di lei ma avrebbe colmato la lacuna sguinzagliando i segugi a Keor.

Individuò facilmente il capitano ed anche Otre che essendo alcolizzato non aveva alcuno schermo contro la magia dei Neri, era una porta spalancata. Non percepì altre presenze umane quindi si dedicò ad indagare la mente del più malleabile fra loro: Otre.

Lesse in lui, provocandone i ricordi artificialmente, gli avvenimenti che li avevano condotti in quel luogo ed apprese il reale motivo del viaggio: l’oro. Quest’ultima notizia le sarebbe tornata utile a momento debito per punirlo in modo opportuno.

I ricordi di Otre gli raccontarono anche della fuga di Mahina. La ragazza non si trovava con loro, l’avrebbe sicuramente percepita ed era troppo giovane per avere conoscenze magiche tali da poterle sfuggire. Dove poteva essere andata, si chiese?

Continuò a sondare la regione astrale osservando tutto quello che si muoveva attorno al gruppo ma a parte qualche animale non individuò nulla di significativo.

“Devo raggiungerli personalmente” si disse “Mahina è la chiave per scalzare Thotme dal suo dominio ed ottenere l’accesso al Fuoco Sacro.”

Non mise al corrente il Gran Maestro delle propri scoperte, potevano rivelarsi una buona carta da giocare per liberarsi di lui.

Chiamò Thalos per informarlo degli ultimi sviluppi e della propria intenzione di partire verso la Terra dei Barbari.

L’arte oscura d’una maga aveva bisogno della forza maschile per potersi esprimere: era il mago il vettore in grado di riempire il suo corpo magico.

Questi, a sua volta, attraverso lo scambio di polarità, riusciva a svuotare se stesso, rivelando ciò che non poteva manifestarsi se non quando il polo femminile lo conteneva, dividendolo in piccole parti, sperimentabili.

La magia oscura era semplicemente uno scambio d’energia ed erano necessari entrambi i poli per potersi attivare e rivelare in piena potenza.

Si prepararono al viaggio sapendo che nessuno avrebbe avuto qualcosa da ridire: entrambi andavano spesso nel territorio dei Barbari per attuare pratiche di magia sperimentale sul popolo.

Prima di partire si recarono nella Camera Inferiore del Tempio, indossarono le lunghe vesti nere ed argento utilizzate per le cerimonie ed unirono le rispettive polarità dinnanzi alla statua del Dio Nebiros.

Allacciarono le mani l’uno all’altra ed invocarono la presenza di Ninith, la sposa del Dio, la cui immagine non poteva essere creata artificialmente in nessuna forma scultorea od artistica per non privarla della potenza illimitata che donava agli adepti.

Era il Dio Nebiros che permetteva attraverso la sua intercessione, la manifestazione temporanea in una determinata forma che mutava a seconda dei richiedenti, adattandosi alle loro fantasie più nascoste.

Mhanna e Thalos invocarono la Dea richiamandola con un canto magico antichissimo e l’energia della sala si saturò di sacralità.

La Dea apparve calandosi nel corpo di Mhanna e la trasfigurò a tal punto da renderla irriconoscibile: in quel momento era la Dea stessa.

Il volto di Ninith possedeva una bellezza senza pari ed era dominato da occhi neri e brillanti come diamanti; il corpo trasmetteva una femminilità così dirompente che i sensi umani venivano annientati.

Un unico sguardo della Dea provocò in Thalos un orgasmo di piacere assoluto che nessun rapporto carnale avrebbe potuto eguagliare.

Ninith allargò le braccia in segno d’accoglienza e parlò attraverso Mhanna.

“Amati figli eccomi a voi, sono a conoscenza dei vostri piani e vi dono la mia benedizione e tutta la forza che vi servirà per affrontare il compito che vi attende.” s’interruppe stringendo fra le proprie, le mani del giovane mago.

Come una piovra vorace la Dea assorbì la sua intera energia vitale e gli provocò quella che veniva comunemente chiamata “piccola morte”.

Il corpo privo di vita di Thalos rimase sospeso nel vuoto grazie ad una forza misteriosa mentre la Dea veicolava un’energia magica, interamente rinnovata, nel corpo di Mhanna.

La Maga Nera a sua volta, la rinfuse a Thalos resuscitandolo in un nuovo nato.

Il dono della Dea era un’energia vergine, potente e purissima e poteva venire usata in qualsiasi modo avessero voluto. Costituiva la materia grezza per i riti magici e per la realizzazione d’ogni genere di desiderio.

Terminarono il rito con il ringraziamento dovuto e completamente rinvigoriti, partirono alla ricerca della figlia dei Sommi e del bambino che portava in grembo.

 

***

 

Il sole si trovava allo zenit quando raggiunsero la collina indicata da Trascus.

Otre era eccitato come un bambino mentre il capitano pur avvertendo un esaltante formicolio di piacere, era rimasto imperturbabile

«La collina, ci siamo! Da che parte andiamo ragazzo?» chiese senza tanti preamboli puntando il pugnale al fianco di Gelkares in segno d’incitamento.

La giovane s’irrigidì al contatto della punta della lama, il capitano la terrorizzava ed iniziava a dubitare che sarebbero riusciti a togliersi d’impaccio da quella situazione.

«È di là, per raggiungere il passaggio dobbiamo salire lungo il pendio.»

«Di che passaggio si tratta? Spero per te che non sia un trucco! Ti assicuro che non avresti nessuna possibilità di uscirne vivo.»

«Dobbiamo riposarci prima della salita, non possiamo farcela con questo caldo.» azzardò Trascus ma venne subito messo a tacere da un violento pugno allo stomaco.

«Forse non hai ben capito chi comanda qui!» il capitano osservò implacabile il giovane piegato in due dal dolore. «Quanto distante è?»

Trascus cercò di ritrovare fiato prima di rispondere con voce soffocata.

«Si trova quasi sulla sommità, si tratta d’un passaggio nascosto alla vista.»

Il capitano esaminò l’estrema pendenza della collina ed optò per una breve sosta: non avevano chiuso occhio durante la notte e Trascus poteva averli condotti in una trappola che era meglio affrontare nel pieno delle forze.

«Ci fermiamo Otre! Ovviamente non per il suggerimento dello schiavo!»

«Certo capitano, anch’io penso sia meglio fermarci, il sole picchia forte e non è il caso d’affrontare una salita in queste condizioni.»

Si accamparono sotto la collina e dopo aver legato schiena contro schiena i prigionieri, allestirono un piccolo campo per il pranzo.

«Carne secca affumicata ed acqua, capitano!» annunciò Otre mestamente «Non ho più un goccio d’idromele.»

«Non dire idiozie Otre, so benissimo che ne hai ancora nello zaino.»

Otre abbassò lo sguardo sghignazzando.

«Stai tranquillo non sono uno sporco ubriacone come te e non ho bisogno di quella robaccia.»

«Grazie capitano, ovviamente scherzavo e sarei stato felice di dividere l’ultima fiaschetta con lei.»

«Sei più falso di Nebiros, passami la carne e taci!» brontolò bonariamente strappandogliela di mano.

«Capitano, quanto tempo impiegheremo ad arrivare lassù?»

«Dipende da come si snoda il sentiero attorno alla collina e se ci sono scorciatoie. Tu, schiavo, hai qualcosa da dire?»

Trascus in quel momento preferì non mentire, Phale era a qualche metro di distanza da loro: si era fatta vedere in un momento di distrazione dei due marinai. Parlò per lei, sperava che riuscisse ad approfittare delle sue parole.

«Per arrivare in cima ci vogliono un paio d’ore, ma ci sono delle scorciatoie che ci eviteranno di seguire l’intero tornante. Sono più faticose, ma ci risparmieranno metà del percorso. Il penultimo tornante è quello che c’interessa.

«Cosa troveremo arrivati lì?»

«C’è una fessura nella roccia, sembra chiusa ma in realtà forma una passaggio ad “u”; è un po’ stretto, ma ci si entra. Il punto di riferimento che utilizzavamo da bambini era un albero proprio lì di fronte, un abete frondoso in cui avevamo inciso le nostre iniziali… mie e di mio fratello.»

«E come si chiamava tuo fratello?»

«Le lettere sono due T.»

«Perfetto, adesso possiamo ammazzarvi!» affermò freddamente il capitano.

La reazione di paura dei prigionieri provocò un’ondata d’ilarità nei due marinai.

«Non sono così stupido ragazzo, stavo scherzando! Per ora non vi ucciderò, perlomeno fino a quando l’oro non sarà davanti a me! Deciderò in un secondo tempo come farvi passare a miglior vita!»

Una vena di compiacimento gli attraversò gli occhi di fronte all’idea delle torture che avrebbe inflitto ai prigionieri; amava lo spargimento di sangue, come tutto il popolo dei Neri, ma era la vista della sofferenza che lo faceva godere sopra ogni cosa. Le sevizie non erano necessarie in ogni occasione, ma lui non si risparmiava ed era raro che non le infliggesse alle proprie vittime prima d’ucciderle.

Le parole di Trascus erano arrivate con nitidezza a Phale che aveva compreso il motivo per cui era stato così preciso nella spiegazione pur non essendoci reali motivi di scoprire troppo presto le carte.

Nonostante fosse stanca quanto gli amici s’incamminò lungo il sentiero indicato per avere un discreto vantaggio.

Una nuova ondata di magia indagatrice le aleggiò attorno mentre saliva il pendio arrancando per la stanchezza: erano certamente Mhanna e Thotme perché solo i loro livelli erano in grado di fare viaggi astrali a così lunga distanza.

Non si trattava di magia bianca perché ne percepiva le frequenze oscure ed un brivido di paura le serpeggiò lungo la spina dorsale. Con uno sforzo di volontà la sottomise e si schermò, avvertendo gradualmente il decelerare del ritmo del battito cardiaco.

Ancora una volta un involucro di energia protettiva accorse in suo aiuto, ma non fu in grado di definirne la provenienza.

“Che sia il mio Fetch?” si domandò.“Ti prego, se sei tu dammi un segno, uno qualsiasi.”

Nulla attorno a lei sembrò darle risposta.

Quando la sonda di magia nera passò, riuscì a rilassarsi e ad avanzare con minori problemi.

Approfittò delle indicazioni di Trascus e trovò numerose scorciatoie che le permisero di abbreviare di molto la salita.

Cercò di non pensare alla fatica che la stritolava in una morsa; non poteva fermarsi se voleva aiutare gli amici, doveva ispezionare il territorio e trovare una via di fuga.

Raggiunse il penultimo tornante, ma non riuscì a trovare l’albero di cui aveva parlato Trascus. Guardò ripetutamente, scese un tornante per verificare di non essere andata troppo oltre ma dell’albero non c’era traccia. Che si fosse sbagliato? Che avesse dato delle indicazioni errate appositamente? Non aveva senso, era certa che le avesse date così precise in modo che arrivassero a lei e quindi?

Ripercorse nuovamente tutto il tornante alla ricerca dell’albero ma dovette rassegnarsi. S’appoggiò alla parete di roccia per raccogliere le idee e riposarsi.

Che Trascus avesse mentito a tutti riguardo all’oro? Le sembrava incredibile che avesse taciuto la verità anche a lei.

Si voltò spaventata verso un tonfo sordo improvviso: una grossa pietra era caduta a poca distanza dai suoi piedi. Esaminò in alto per controllare un possibile pericolo di frana ma non notò alcun dissesto nella roccia.

S’avvicinò incuriosita alla pietra, se fosse caduta qualche metro più in là l’avrebbe uccisa all’istante. Si accorse in quel momento, alzando gli occhi verso la parete di roccia, dell’esistenza di una stretta fenditura nascosta dagli arbusti. Sembrava un vicolo morto che terminava in una parete di roccia ma considerando i suggerimenti dati da Trascus s’azzardò ad entrare e smascherò l’illusione ottica: lo stretto corridoio svoltava bruscamente aprendosi in una caverna piuttosto ampia.

Ricordandosi della richiesta fatta al suo Fetch sorrise e lo ringraziò per l’aiuto inseparato e soprattutto per averle dato la conferma di esserci davvero nei momenti difficili.

Nonostante la precarietà della situazione sapere di non essere sola, in balia d’un destino avverso, le alleggerì il cuore strappandole un sorriso.

Entrò nella caverna e scoprì con sollievo che era discretamente illuminata grazie ad un’apertura a cono sulla sommità.

Era chiaramente un luogo di sepoltura perché addossato ad una parete troneggiava lo scheletro consunto d’un essere umano. Aveva le mani incrociate sul petto e stringeva la pietra del ricordo, segno che era stato un uomo importante in vita.

Molte tribù barbariche usavano seppellire i membri più importanti della comunità lasciando accanto ai loro corpi il simbolo che li avrebbe accompagnati nell’altra vita e che avrebbe costituito l’Archetipo maggiore della loro nuova esistenza. Ogni simbolo, le avevano insegnato a scuola, veniva scelto con cura a seconda delle richieste del morente.

Si avvicinò allo scheletro senza alcun timore: come tutti i Bianchi sapeva che la morte era solo un passaggio, un attimo nel tempo fra una vita e l’altra, in una continua evoluzione di ogni essere vivente.

Per rispetto verso quella profanazione si scusò mentalmente con lo Spirito del morto e guardò con interesse il simbolo inciso sulla pietra: si trattava di una runa, uno dei più antichi linguaggi conosciuti al mondo.

La pietra aveva incisa una semplice asta verticale che nel linguaggio runico simboleggiava il “privo di forma” ed era la strada che conduceva un Barbaro alla civiltà atlantidea.

Il senza forma era l’Archetipo che permetteva di svuotarsi d’ogni passata personalità, superando le leggi del karma e liberando l’individuo dal precedente piano di esistenza.

Si trattava quindi d’un uomo piuttosto evoluto e questo spiegava la sepoltura in una grotta piuttosto che in una semplice fossa: era un privilegio accordato ad una stretta cerchia di prescelti, probabilmente un re od uno sciamano.

Con profondo rispetto onorò il corpo e lo Spirito del morto, chiedendogli protezione mentre si trovava nella sua sacra dimora.

Osservò la caverna ed individuò poco distante le tre sacche d’oro di cui aveva parlato Trascus. Tirò un sospiro di sollievo: forse l’oro avrebbe placato gli animi o perlomeno avrebbe distratto per un po’ i due marinai.

Doveva ideare un piano, poteva usare l’incantesimo d’invisibilità per liberare Trascus e permettergli di combattere.

Delle voci concitate fuori dalla grotta l’allertarono: erano arrivati.

«Brutto bastardo d’uno schiavo puzzolente!» Otre imprecava con voce rabbiosa.

«Dove diavolo sarebbe questo albero con le iniziali? Non c’è niente qui.»

«Non so…» balbettò Trascus più per scena che per paura «ti assicuro che era lì da qualche parte ed era l’indicazione per l’entrata alla grotta.»

Il capitano intervenne punzecchiando Gelkares con la lama del pugnale.

«Ti conviene trovare quella grotta, non ho intenzione di giocare con te.»

«Forse l’albero è stato falciato via da qualche tempesta o è morto, guardi ci sono alberi spezzati.»

«Non m’interessa quale sia il problema, trova l’entrata o lei morirà ora!»