2.

Incontro nel futuro

Monràh Somma Maga ESCAPE='HTML'

 

«Sbrighiamoci ragazze» cinguettò Rechel affrettandosi lungo il corridoio rivestito di piastrelle di quarzo bianco che conduceva al Tempio di Smeraldo.

Le ventidue immense colonne marmoree poste ai lati del passaggio denunciavano la maestosità del luogo più caro ai Bianchi.

Il giorno seguente, durante la festa di Bolimeth, la coppia divina Mut e Tef sarebbe stata onorata dal popolo atlantideo senza alcuna distinzione di ceto o razza ed era un evento che richiedeva uno sforzo notevole da parte di tutti.

Rechel era attesa dalla Somma Maga Monràh per ricevere le ultime disposizioni organizzative; a dire il vero si trattava di insignificanti dettagli.

Era una maga piuttosto minuta, dall’età indefinibile, il cui aspetto scialbo si accendeva inaspettatamente grazie ad una massa di capelli rosso fuoco. Il volto rotondo accoglieva due piccoli ma caldi occhi castani.

 

Era il trentaduesimo anno consecutivo che aveva l’onore di essere accanto a Monràh durante la festa di Bolimeth ed in quell’arco di tempo l’amicizia fra le due donne si era rafforzata creando un legame indissolubile.

Monràh le aveva confidato che probabilmente sarebbe stata lei a succederle il giorno in cui, come ogni Somma Maga, avrebbe abbandonato l’esistenza per raggiungere la montagna sacra e riunirsi agli Antichi.

Una posizione di comando mantenuta nell’integrità, senza cadere vittima delle lusinghe del potere era un ingrediente necessario per raggiungere l’Oltre: così veniva chiamata da tutti, Haturi, la montagna sacra.

Si narrava fosse un luogo colmo di luce e d’amore e si poteva sperare di raggiungerlo solo dopo aver completato il percorso della propria anima, viaggiando prima nei regni oscuri e poi in quelli luminosi.

Monràh si era resa meritevole di questo accesso in ogni occasione e quando gli Dei lo avrebbero ritenuto opportuno avrebbe ricevuto la loro chiamata.

Veniva ammirata per l’ineguagliabile lungimiranza e per la capacità di trasformare le sue parole in perle di saggezza in grado di sciogliere conflitti insolubili.

Non era venerata solo dai Bianchi del Tempio ma anche dalla gente comune di Atlantide che lasciava in suo onore offerte d’ogni genere.

I doni che Monràh amava maggiormente erano i cilindri fioriti: era usanza di Keor lasciare ai piedi degli scalini d’accesso al Tempio dei piccoli cilindri contenenti messaggi di ringraziamento o d’amore; spesso erano dediche rivolte ai Sommi od agli Dei.

I cilindri fioriti non venivano usati solo per questioni spirituali, ma anche per semplici manifestazioni d’amore o d’affetto della gente comune che se li scambiava reciprocamente, affi-dandoli poi agli Dei.

Si trovavano in vendita nei graziosi negozietti del centro di Keor forgiati in vari materiali: da quelli più costosi ed ornati da ogni genere di pietra preziosa, a quelli di modesto cartone colorato, abbelliti da semplici grafie.

Monràh adorava leggerli perché per lei le parole erano la ricchezza più grande e quelle d’amore, come ben sapeva grazie alla sua formazione spirituale, potevano guarire ogni genere d’oscurità.

Il potere della giusta parola era un esercizio al quale ogni Iniziato doveva sottoporsi, cadendo spesso in errore ma migliorando progressivamente.

Il Verbo era la vita stessa che si manifestava nel bene o nel male, a seconda di chi lo pronunciasse. Non esisteva saggezza senza la padronanza delle proprie parole, non c’era ascensione senza la comprensione delle leggi prime della vita. Per Monràh, quindi, i cilindri fioriti costituivano uno strumento eccezionale che riusciva a veicolare da solo grandi energie per mantenere in armonia il Tempio e per governare con più facilità la propria anima e quella di Atlantide.

Quante volte era caduta prima di riuscire a misurare le sue parole? Tante da non poterne tenere il conto. Eppure grazie ad ogni sbaglio aveva imparato qualcosa in più, fino al conseguimento del ruolo di Somma Maga.

Era un incarico importante che richiedeva d’essere onorato con il massimo impegno a causa del grande potere che conferiva. Monràh era stata innegabilmente la più degna fra tutte coloro che l’avevano preceduta.

La Somma aveva lunghi capelli nivei che le incorniciavano un volto dall’ovale perfetto ed in cui spiccavano due gemme il cui colore sfidava il nero d’un cielo notturno e privo di stelle.

Il corpo agile e snello veniva esaltato in ogni occasione dalla sua innata capacità d’armonizzare fra loro abiti e colori. L’età, come per tutti i Bianchi, era difficile da definire: vivevano anche duecento anni senza che si notassero i segni del tempo. Solo i capelli che imbiancavano tradivano l’età dei veterani, ma non la si riusciva a quantificare oltre il cinquantennio.

La popolazione di Atlantide viveva in media cent’anni e molti desideravano entrare nella Confraternita del Tempio solo per allungare la propria esistenza.

Essere accolti in quell’esclusiva élite, tuttavia, non era alla portata d’individui comuni: voleva dire subire prove durissime che potevano condurre l’iniziato alla follia od alla morte. Significava perdere ogni contatto con la realtà esteriore per entrare nella dimensione interiore dell’uomo, per visitarla e per vederla per la prima volta priva di veli.

Monràh aveva viaggiato in quei luoghi inesplorati, aveva sofferto, era caduta mille volte, aveva pianto ogni lacrima e perduto ogni avere, compresa la speranza, prima d’ascendere alla posizione di Somma Maga.

Molti non vi riuscivano, rovinavano in quella o quell’altra prova e non riuscivano ad andare oltre i loro limiti terreni.

Amiroth e Monràh avevano concepito Mahina in tardissima età grazie ai loro poteri unificati ed all’intercessione degli Dei.

Rechel e le due maghe che l’accompagnavano, affrettarono il passo per accedere al Tempio.Monràh le attendeva raccolta in meditazione. 

Quando le udì avvicinarsi si alzò dalla poltroncina imbottita di velluto blu pavone e le accolse con un sorriso.

«Carissime vi attendevo!» Allargò le braccia in gesto d’accoglienza.

«Dobbiamo riuscire a sbrigare le ultime faccende, è necessario finire d’addobbare l’altare per la Dea Mut. Le rose bianche che avevamo disposto ai suoi piedi sembrano essere appassite prima del tempo… è un fatto piuttosto singolare.»

Rechel, che aveva ormai raggiunto Monràh e le stava ad un palmo dal naso, la guardò negli occhi cogliendovi un senso di preoccupazione.

«Pensi che ci sia qualcosa che dobbiamo valutare meglio?»

«Non so Rechel… le rose provenivano dalla stessa fonte di quelle che abbiamo posto ai piedi del Dio Tef. Come possono essere appassite le une e le altre no? Il tutto nel giro di qualche ora. Ho mandato a chiamare il fioraio che ha preparato le composizioni, ma mi ha assicurato che non ci sono stati trattamenti diversificati fra i due fasci di fiori.»

S’interruppe per raccogliere i pensieri e poi aggiunse con un sorriso di complicità:

«Non ti posso nascondere nulla, vero? Speravo non te ne accorgessi…»

Rechel gettò la lunga treccia di capelli rossi dietro alle spalle e sorrise all’intimità di quell’affermazione ma riprese subito il controllo per concentrarsi sui pensieri non ancora formulati dalla Somma.

«Pensi sia un segno?»

Le altre due maghe presenti, che fino a quel momento avevano chiacchierato fra loro, si azzittirono per ascoltare.

«Non so Rechel… sai bene quanto sia facile per l’uomo mettere da parte ciò che non vuole vedere. Gli Dei ci stanno parlando nel modo che noi abbiamo il dovere d’interpretare e quello che ci stanno dicendo è che qualcosa non va, che la parte femminile della vita sta per subire un danno. Non devo insegnarti nulla riguardo al simbolismo, hai ormai raggiunto un livello di preparazione pari al mio.»

Rechel annuì abbassando lo sguardo a terra con modestia.

«Pensi sia il caso d’interrogare la Dea? Vuoi che riuniamo in consiglio i Dodici per avere un’opinione in merito?»

Monràh fece cenno di diniego con il capo.

«Sai bene che i Dodici tengono in grande considerazione la mia parola e non voglio fare nulla che potrebbe indurci ad atti avventati. Non sono certa di quello che sta accadendo anche se sento il mio corpo vibrare per qualcosa che sta rompendo l’armonia di Atlantide. Non ne avevo ancora parlato con nessuno e confido in voi tre» affermò allargando le braccia ad includere le tre maghe «per mantenere il segreto fino a quando non avremo circoscritto questa sensazione ed il segno delle rose.»

Le maghe annuirono preoccupate: la formidabile capacità di prevedere gli eventi della Somma ascoltando le vibrazioni energetiche attorno a lei era un punto di riferimento per tutti gli abitanti del Tempio.

Era la Dea Mut, la parte femminile della creazione che stava probabilmente subendo un danno, ma comprendere da dove venisse il pericolo non era così scontato.

«Vorrei che per oggi ci concentrassimo solo sui preparativi per Bolimeth, dedichiamoci alle ultime questioni ed alla preparazione della cerimonia sacra.»

«Tu, Amil» suggerì guardando la maga alla sua sinistra «potresti occuparti delle rose da sostituire, Manet invece» disse rivolta alla più anziana «si dedicherà alla preparazione del discorso che terrò durante la funzione.»

Ricevuto l’assenso delle interessate, si rivolse a Rechel.

«Noi invece ci occuperemo d’interrogare la Dea. So che avremmo un responso più incisivo se i Dodici al completo ne fossero informati, ma non voglio creare panico, non voglio instillare nella mente il dubbio prima d’avere elementi certi da condividere.»

Le quattro maghe annuirono all’unisono e si lasciarono, non senza inquietudine, per dedicarsi ai rispettivi compiti.

Rechel e Monràh si presero sottobraccio e si avviarono verso la Cappella delle Cerimonie, luogo in cui generalmente venivano svolti i riti e gli incantesimi. Non era un ambiente che di giorno necessitava d’illuminazione poiché le pareti erano composte per tutta la loro interezza da elaborati mosaici di vetro colorato che giocavano ininterrottamente con la luce proveniente dall’esterno, creando effetti caleidoscopici.

Entrambe erano maghe di grande esperienza e non ebbero bisogno di parlarsi per coordinare i rispettivi movimenti.

Si lavarono mani e volto con l’acqua sacra proveniente dalla Camera della Fonte sotterranea, che sgorgava zampillando dal dodecagono battesimale posto al centro della sala.

Così purificate si prostrarono davanti all’altare della Dea Mut per richiedere la sua intercessione al rito che si accingevano a compiere.

Monràh riusciva a comunicare con la Dea senza errori poiché la purezza della sua anima era garanzia di genuinità dei messaggi ricevuti. La menzogna, infatti, era sempre in agguato, pronta a distorcere la verità se deviata dalle paure, dalle aspirazioni o semplicemente dai desideri d’un richiedente non cristallino.

La sua lunga formazione spirituale l’aveva resa immune dai tentativi di manipolazione dell’ombra della menzogna e ne avvertiva con estrema facilità le basse frequenze.

Accesero i numerosi diffusori in terracotta nera sparpagliati in ogni angolo possibile della Cappella e un delicato aroma di vaniglia, trasportato da voluttuose spire di fumo, avvolse i corpi delle maghe raccolte in meditazione attorno alla fonte battesimale.

La manifestazione del potere della Dea non si sarebbe fatta attendere.

Monràh uscì con facilità dal proprio corpo attratta dalla visione che la Dea le stava proiettando in astrale, mentre Rechel rimase a vegliarla nello stato di coscienza terreno.

La Somma si ritrovò in un ambiente oscuro ed intriso di paura e dolore.

Dinnanzi a lei si stagliò, prendendo consistenza gradualmente, l’immagine d’un giovane ragazzo alto e snello.

Aveva circa vent’anni ed il volto piuttosto squadrato era incorniciato da una cupola di ricci di media lunghezza del colore del grano maturo che sembravano scintillare di luce propria. Gli occhi verde smeraldo erano velati da un’ombra indefinibile e Monràh comprese, percependone le intenzioni, che stava affrontando il viaggio verso la montagna sacra, il luogo dell’Oltre.

Notò all’istante l’incredibile somiglianza con Thotme, il Gran Maestro dei Neri e dedusse che vi fosse un legame di sangue fra i due.

“Si chiama Thoth.” gli comunicò la Dea con un pensiero privo di voce ma perfettamente formato.

Thoth ESCAPE='HTML'

Il percorso verso l’Oltre era inusuale per un ragazzo di quell’età, ma la cosa più sconcertante che Monràh non riusciva ancora a comprendere, era il motivo per cui quel viaggio, che normalmente era vissuto con grande esaltazione, fosse invece attorniato da un’energia tanto oscura.

Si avvicinò al giovane consapevole che non l’avrebbe potuta in alcun modo percepire, a meno che lei non l’avesse voluto.

Desiderava comprendere la ragione per cui la Dea l’avesse mandata proprio in quel luogo ed in un tempo così indefinito.

Thoth si girò improvvisamente verso di lei, guardandola senza poterla vedere ma consapevole della sua presenza.

«Chi sei?» domandò il giovane con spirito bellicoso.

Mai, in tutta la sua esperienza al Tempio, le era capitata una cosa del genere: era la prima volta che qualcuno riusciva a percepirla in astrale senza il suo preciso intento.

Eppure il ragazzo la sentiva, anzi le parlava addirittura.

Non sapendo come reagire provò a comunicare con lui.

«Mi chiamo Monràh, sono la Somma Maga del Tempio di Smeraldo!»

Il ragazzo sembrò non udire quelle parole, era spaventato e visibilmente sulla difensiva.

Con il volto paonazzo ripeté:

«Chi sei? Cosa vuoi? Ti sento… so che ci sei e non mi fai paura!» esclamò coraggiosamente. «sapevo che avreste cercato di trattenermi, che non avreste permesso il mio viaggio, ma niente e nessuno potrà distogliermi da quello che penso sia giusto fare. Non potrete fermarmi! Che muoia per mano vostra o per destino, avverrà quello che ho deciso per me! Non mi presto a diventare il vostro strumento di distruzione… non ve lo permetterò mai!» gridava con indignata determinazione ad un palmo dal naso dell’evanescente Monràh, ma quelle parole non avevano ancora un senso compiuto per la Somma.

La maga si soffermò incantata ad ammirare la bellezza e la franchezza del giovane ma era rimasta turbata dalle sue parole.

Sapeva perfettamente, avendolo sperimentato lei stessa, cosa significasse essere minacciati dagli spiriti immondi: si nutrivano dell’energia degli umani per esistere ed avevano il potere di manipolare telepaticamente gli uomini senza essere visti. I bambini ed i giovani costituivano le vittime predilette avendo energia in abbondanza ed ancora priva di forma.

Monràh, pur possedendo le medesime capacità, non avrebbe mai potuto fare del male ad alcuno e non avrebbe in alcun modo cercato di spaventare, manipolare o condurre al proprio volere un individuo. Non aveva bisogno inoltre dell’energia altrui per vivere, essendo già nella vita e collegata al Fuoco Sacro.

Lei serviva la Luce e per questi motivi, constatando lo stato alterato del giovane, utilizzò il potere del proprio cuore per comunicare con lui, lasciando che si tranquillizzasse al suono delle vibrazioni della luce dell’amore. Non si trattava di parole, ma il cuore poteva percepirne la frequenza e difatti Thoth si calmò all’istante.

Il colore del volto riacquistò la sua naturalezza e, sebbene continuasse a percepirla, comprese di non essere in pericolo.

Non riuscì tuttavia a dare un significato compiuto a quella presenza, era troppo assorbito dal suo mondo.

Guardò davanti a sé l’alba appena spuntata dalle montagne innevate e tinte d’un tenue color rosato, determinato a non farsi distrarre dai suoi propositi.

Intuì che probabilmente gli Dei gli stavano comunicando qualcosa, ma aveva un compito da portare a termine e niente e nessuno glielo avrebbe impedito.

Thoth si sentì lievemente in colpa per non avere ringraziato lo Spirito di Luce che gli aveva fatto visita quando non ne percepì più la presenza, ma non poteva far altro che seguire la propria strada.

La Somma era tornata velocemente indietro nel proprio corpo.

Aveva compreso che il giovane non le avrebbe fornito spiegazioni più precise visto lo stato d’agitazione, ma si era affrettata soprattutto quando il suono lontano della grande campana le aveva annunciato che i Guardiani della Soglia, i custodi della barriera spazio-temporale, si stavano muovendo verso di lei per impedirle di sconfinare ulteriormente.

Tornata allo stato di coscienza naturale, trovò Rechel intenta ad osservarla con preoccupazione.

«Che cosa hai visto? Cos’è accaduto? Per un attimo il tuo corpo ha perso consistenza. Sei forse sconfinata in un altro tempo?»

Monràh cercò di trovare il proprio equilibrio non rispondendo immediatamente alle domande. Svuotò in silenzio la fonte battesimale e dopo qualche minuto condivise con l’amica l’esperienza avuta in astrale.

«Rechel, non riesco a capire! Non comprendo perché gli Dei mi abbiano dato la visione di quel ragazzo! È vero, sono andata in un altro tempo ed ho visto Thoth, un ragazzo determinato a morire nell’Oltre. Ma non ha senso! Non andava lì per compiere il destino d’ogni anima completa, ma per sacrificare se stesso. Affermava di non voler essere uno strumento di distruzione e rivolgeva le sue parole a qualcuno d’indefinito. Non riesco davvero a capire.» concluse aggrottando la bella fronte liscia.

Rechel fissò l’amica confusa quanto lei dai contenuti della visione: nessuno poteva raggiungere l’Oltre, perché l’entrata era celata alla vista di coloro che non erano pronti.

Per tutti era un mito, un posto in cui molti Maghi Bianchi di Atlantide si erano avviati senza poter tornare a descriverlo.

Leggende d’ogni tipo narravano di questa entrata sacra ma la verità la conoscevano solo i diretti interessati.

«Come può un ragazzo andare nell’Oltre con il timore d’essere preso dalle Ombre? Nessuno può vedere l’entrata se ha paura. E come può addirittura decidere di uccidere se stesso? Se ha di questi pensieri non può in alcun modo accedere all’Oltre: il suicidio è un’energia a bassissima frequenza.»

Le due maghe si guardarono come a cercare l’una nell’altra una risposta che non riuscivano a scorgere.

Avrebbero avuto bisogno di altri indizi e sicuramente ci sarebbero stati, ma per quel giorno decisero di mettere da parte ogni domanda e di occuparsi della festa di Bolimeth.

Non potevano farne parola con i Dodici, non in quel momento almeno, per non disperdere le energie del nuovo che stava avanzando. L’eccezionale congiuntura dei due Soli di Atlantide avveniva in un unico giorno all’anno ed era loro compito assicurarsi che tutto si svolgesse nel migliore dei modi.

Con malcelato turbamento si ripromisero silenzio e idearono un racconto plausibile per le due maghe a conoscenza del rito che avevano appena terminato.

Prima d’uscire dalla Cappella delle Cerimonie, Monràh aggiunse:

«Non ti ho raccontato un particolare ancora più inquietante.»

Rechel la guardò incuriosita, bloccandosi sul posto.

«Il ragazzo, Thoth, assomiglia incredibilmente a Thotme. Se dovessi giudicare penserei che sono padre e figlio.»

Rechel sbarrò gli occhi come colpita da un fulmine.

«Ma… ma… non è possibile… un Nero che si reca nell’Oltre?»

Il destino invece, stava realizzando l’impossibile.

Il destino ed il Libro delle Ombre.